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La chiarezza della comunicazione rappresenta, da sempre, una sfida. A partire dall’ermeneutica aristotelica fino alla semiotica industriale contemporanea, il rapporto tra ciò che si vuole comunicare e il modo in cui viene recepito si basa su un equilibrio sottile, che coinvolge in un unico flusso informativo l’emittente e il destinatario di un messaggio, chi scrive e chi legge, chi parla e chi ascolta. Il mio percorso di ricerca, inizialmente nel settore del patrimonio culturale, e poi nella storia comparata delle religioni, ha sempre posto il tema della semiotica al centro di ogni prospettiva di indagine. Da anni raccolgo note e riempio pagine di appunti sulla storia della predicazione come storia della comunicazione, analizzando gli elementi che manifestano l’applicazione di criteri che, del tutto anacronisticamente, mutueremmo oggi dal lessico del marketing. Empathy buildingopinion makingbehavioral change solo solo alcuni dei temi che emergono dal perfezionamento della retorica classica con le tecniche proprie della messa in scena teatrale, nell’ambito performativo della predicazione. I predicatori erano, prima di ogni altra cosa, attori sulla scena, che dovevano mostrare la capacità, secondo la tradizione ciceroniana, di movere (emozionare) o di flectere (persuadere) l’animo degli spettatori.

La tradizione ebraica si differenzia in maniera radicale dalla prospettiva cristiana, nel rapporto con le fonti sacre e la tradizione. Lontana da una teologia dogmatica, l’ebraismo definisce un sistema di credenza basato sulla responsabilità dell’interpretazione della tradizione sacra. La verità va ricercata tra le parole della Torah (corrispondente al Pentateuco di tradizione cristiana), attraverso l’applicazione di strumenti di ermeneutica del testo sacro, sviluppati e perfezionati nel corso dei secoli. Contestualmente ad una verità che va costantemente ricercata, esiste una concezione della verità che incute timore, che spaventa, che deve indurre la mente umana alla cautela. Non tutti possono capire tutto. Non tutti possono sopportare tutta la verità. Yitzhaq Zahalon, intellettuale dell’ebraismo seicentesco, afferma, nel suo ‘Or darshanim (La luce dei predicatori) che se il commento è complesso, si parli tramite immagini. Il darshan, traducibile come l’omileta (in senso più generico, il commentatore) veniva supportato, nel suo lavoro di mediazione teologica e di indiretta leadership religiosa, dall’esistenza di veri e propri strumenti, manuali per predicatori, spunti per sermoni, idee per omelie. Per quanto possa sembrare strano, un intellettuale di una religione tradizionalmente aniconica, propone l’uso della visualità – per quanto immaginativa – come strumento esplicativo di strutture concettuali talvolta difficilmente comprensibili. Non tutti possono capire tutto, ma chi veste i panni del mediatore culturale – cos’altro è, un predicatore? – deve cercare di farsi capire. Se in ambito giuridico vale il principio secondo il quale ignorantia iuris non excusat, in ambito religioso (così come in ogni ambito pedagogico, in senso lato) deve valere l’esatto contrario. La comprensibilità del messaggio deve essere preoccupazione e responsabilità di chi lo emette.

Ho avuto il privilegio di trattare il tema dell’accessibilità concettuale e della semantica inclusiva in un capitolo scritto, su invito di Oddbjørn Sørmoen, nel volume Accessibility as a key enabling knowledge for the enhancement of cultural heritage, che credo rappresenti un tassello importante nello scenario della riflessione internazionale sull’argomento. La rapida trasformazione del profilo culturale della società contemporanea sempre più ci pone di fronte alla sfida della comunicazione inclusiva e della capacità di modulazione del lessico e dei sistemi semiotici. La ricerca storica mi ha aiutato in maniera significativa, nel percorso di maturazione di una prospettiva critica sull’argomento, anche a partire da modelli teorici elaborati su casi di studio databili a secoli addietro. Il prossimo 15-17 maggio 2018 avrò il piacere di applicare gli strumenti epistemologici della semiotica e della linguistica storica alla storia della predicazione, in occasione del workshop internazionale Understanding Multilingual Sermons of the Middle Ages, organizzato dall’Institute for Medieval Research della Austrian Academy of Sciences. A partire dal modello analitico ipotizzato da Joseph Chetrit, che distingue, relativamente ai dialetti giudeo-berberi, diglossia, plurilinguismo e ibridazione linguistica, parlerò del giudeo-italiano e della storia di una cultura italiana che è fisiologicamente pluralista, ma che riporta impressa nel linguaggio la tradizione forte di un pensiero marcatamente connotato delle tradizioni culturali locali.

In un’epoca di frainteso multiculturalismo e di dialettica interculturale ad uso ornamentale, è fondamentale utilizzare la ricerca come strumento di riscoperta e valorizzazione di una ricchezza culturale che ha caratterizzato la nostra storia. E’ necessario ripristinare un equilibrio tra rigore scientifico e utilità della ricerca (ben oltre la frequente autoreferenzialità che spesso caratterizza il lavoro accademico), cercando di instillare nella cultura generale elementi di interrogazione, di sollecitazione alla riflessione, finanche di incertezza, allo scopo di condurre l’interpretazione della realtà oltre le categorie preconfezionate e le riflessioni pigre. Se è vero, come diceva Emil Cioran, che On n’habite pas un pays, on habite une langue (Aveux et anathèmes, 1987, Ed. Gallimard, p. 21), allora la riscoperta delle contaminazioni linguistiche non è altro che un tentativo di ricomposizione delle mille sfaccettature che hanno definito, nel corso dei secoli, l’unicità di un’identità culturale.

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